La Triàca Veneziana | Valter Carignano Narrativa e Giochi di Ruolo

La Triàca Veneziana


Questo racconto venne scritto per un concorso-omaggio al bel libro ‘Guiscardi senza Gloria’ di Mauro Longo, ambientato a Venezia in un Cinquecento nel quale un morbo sconosciuto ha trasformato parte della popolazione mondiale  in non-morti. La cause sono sconosciute, e chissà che tutto non sia cominciato con un… lo scoprirete leggendo.
Valutando il racconto, il grande Andrea G. Pinketts lo paragonò a uno dei ‘Racconti di Zio Tibia’, fumetti weird-horror statunitensi pubblicati in Italia da Mondadori negli anni ’70 e ’80. Grande complimento per me, grazie!
Nota: la ‘triàca veneziana’ era un preparato alchemico-erboristico la cui formula è ormai incerta, e che si diceva avesse proprietà curative eccezionali. La ‘rubedo’ invece era una trasformazione alchemica della materia, una delle più favoleggiate e difficili da ottenere.


Si chinò sull’alambicco, il contagocce stretto fra pollice e indice.
E adesso l’estratto di bile di salamandra nera. Solo un goccia… ecco!
Vampe arancioni serpeggiarono nel liquido dentro la cucurbita. Luciano da Treviso posò il contagocce e sigillò il contenitore con una cupola in rame istoriata di formule cabalistiche e con un tubo a serpentina in cima. Ravvivò il fornelletto di sotto con un poco di artemisia disseccata, tolse il tappo che chiudeva il tubo e attese. 
La cucurbita si riscaldava, brontolava, fremeva. Dal tubo sbuffò appena un alito di vapore, che divenne più deciso e denso. Luciano osservava, immobile, quasi non respirava nemmeno. Il vapore stillò una goccia, due, tre, divenne fluido e infine… 
– Niente! – esclamò Luciano. Dall’alambicco fluiva una sostanza giallognola, dall’odore acre. Luciano storse il naso. 
Ma è possibile che questa benedetta rubedo non riesca mai! Eppure la formula è quella, non ci sono dubbi, e non ho mai smesso di concentrarmi. Cioè, è vero che mi è venuto da grattarmi dietro l’orecchio destro, ma qui sotto con questo caldo dell’ostia il sudore…
– Ciano, vien su che la polenta l’è pronta!
– Arrivo, Gisa. Due minuti.
Lasciò l’alambicco così com’era, si spostò sull’altro tavolo e controllò nell’athanor a che punto fosse la Triàca. 
Almeno qui, tutto a posto. Meno male, va.
Salì le scale. In cucina, vide la moglie tutta rossa e accaldata versare la polenta dal paiolo sul grande tagliere.
– Ma Gisa, possibile che devi fare ‘sti lavori da sola? Quante volte t’ho detto di prendere qualche donna che ti aiuti? I soldi li abbiamo, no?
– Ma a mì non me piase far la signora, sghei o non sghei. Mi annoio a non far niente, mentre tu sei là sotto. – Riempì una ciotola di polenta di farro e formaggio di capra e la diede al marito. – E tì? Anca tì non ti fermi mai, no?
– Mah, guarda, ci son dei giorni che g’ho ben voglia di una bella vacanza anca mì. – Si scolò un mezzo boccale di birra. – Ah, bella fresca. Ci voleva. Quasi quasi  finisco l’ordine per il vescovo e poi ce ne andiamo in villeggiatura, cosa dici?
– Eh, mì sarìa ben contenta, Ciano. A me ’sto tanfo de fogna dei canal di Venessia non m’è mai piaciuto. Rimane come un gustaccio in bocca. – Anche lei si fece fuori un boccale tutto d’un sorso.
– Massì, è deciso. Domani pomeriggio si parte. E dopo cena apriamo quella grappa che ha fatto tuo nonno buon’anima. 
La Gisa sorrise. Luciano si perse nei suoi occhi e si rivide la prima volta che l’aveva incontrata, lui di ritorno dai suoi viaggi e lei una contadina al mercato di Treviso. Costantinopoli, Vienna, Marsiglia, Salerno, cinque anni in giro per l’Europa a studiare coi più grandi alchimisti e ora finalmente di ritorno, pieno di speranze e conoscenza. E lei era lì, vicino a casa sua, col suo banchetto di uova e formaggio, lei che non era mai andata più di cinque leghe lontana da casa e che quel giorno era lì solo perché la sorella era malata. Si erano innamorati subito, e lei l’aveva seguito a Venezia. Lui voleva far fruttare i suoi studi e aprire una bottega, ma nemmeno nei suoi sogni avrebbe sperato di diventare il più grande alchimista della Serenissima, con nobili e cardinali che facevano la fila per servirsi da lui. E così erano rimasti sempre insieme, lui che quasi aveva dimenticato il dialetto e frequentava quasi ogni giorno  principi e potenti, e lei che era rimasta quella stessa ragazza di campagna che gli aveva preso il cuore quel giorno.

Mangiarono e bevvero in allegria. Luciano sentiva una specie di nostalgia malinconica della sua casetta di Treviso, forse perché di nuovo non gli era riuscita la rubedo, o forse perché preparare la Triàca coi suoi cinquantasette ingredienti l’aveva sempre stufato. La  paturnia forse gli fece alzare appena appena il gomito, e la Gisa gli venne dietro di buon grado. Un’ora dopo si erano scolati un barilotto di birra e un litro e mezzo di grappa.
– Gisa, scendo un attimo a mettere l’ultimo ingrediente. – La moglie aprì appena un occhio, assopita vicino al camino. 
Luciano scese con qualche difficoltà la scala, aprì l’athanor e controllò la pozione. Colore, densità, aroma, tutto era perfetto: dieci litri per sua eccellenza il vescovo, per l’emissario del beì di Algeri e non si ricordava nemmeno più chi altri. 
Stava per aggiungere il quadrifoglio albino triturato quando sentì un brontolio nella pancia. Il rumore crebbe rapidissimo, si fece strada attraverso lo stomaco, galoppò nell’esofago e finalmente si sfogò a bocca aperta in un lungo e tonante boato. Luciano rimase per qualche istante inebetito, quasi compiaciuto da quel rutto portentoso, e non si accorse che l’alito di alcol, polenta e formaggio stagionato aveva messo in movimento la Triàca. Il liquido ribolliva, reagiva, si gonfiava come fosse vivo. Di colpo si sublimò in un vapore denso, dall’odore dolciastro, fitto come la nebbia di novembre. Luciano ne inalò una bella boccata e perse i sensi.

Aprì gli occhi, la luce del mattino inondava il laboratorio. Luciano si sentiva inebetito, scrollò la testa, si guardò intorno. Vide l’athanor vuoto e si ricordò tutto: la grappa, il vapore… 
Pazienza. Vorrà dire che al vescovo gliene darò un po’ di quella vecchia che ho da parte. 
Si tirò su in piedi. O meglio, cercò di farlo. Il suo corpo non rispondeva come al solito, era lento, sgraziato. Cominciò a caracollare di qua e di là.
Mona, che sbornia! Non devo più esagerare così.
Salì con parecchia difficoltà le scale. Gisa era ancora seduta al tavolo, ma con gli occhi aperti e un colorito bianchiccio. – Blarr-guargh-sskt – gli disse.
Luciano la guardò, fra il preoccupato e il divertito: – Certo che anche te sei messa bene. Ci siamo proprio divertiti, ieri sera – rispose. Qualcuno coprì le sue parole con dei versi: – Ffghnn-shom-rrik.
Si girò per veder chi ci fosse, lì insieme a loro, e si vide riflesso nello specchio. Anche lui era molto pallido.
– Gisa, magari chiamo lo speziale, che dici? Non stiamo mica bene.
Di nuovo sentì: – Zarss-pluerch-blaa.
Capì che era la sua voce. Guardò di nuovo la Gisa,  adesso accanto a lui. Barcollarono fuori. Le calli erano piene di gente come loro: storti, bavosi, che grugnivano e vomitavano suoni a caso. E c’era anche un certo odore nell’aria, un po’ dolce.
I vapori. Sono usciti dal laboratorio, si sono sparsi con l’umidità e… Santa Vergine, e adesso come si fa? Devo riuscire a…
Di colpo, girò la testa verso il porto. Vide che lo faceva anche la Gisa. E anche tutti gli altri. Annusavano. Stava arrivando il traghetto da Mestre, quello che portava gli operai che abitavano fuori. 
Luciano e Gisa si presero per mano e si leccarono le labbra, caracollando verso quel profumo di carne fresca: avevano fame, tutto il resto non importava.


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